ARMENIA, IL PAESE DEI FARI
Non è affatto semplice parlare di Armenia, e di armeni.
Come con tutti i popoli presi a pugni dalla Storia, si oscilla sempre tra un certo timore reverenziale, e il rischio di cadere nel facilmente retorico, nel compassionevole.
In aggiunta, non è per niente facile voler davvero capire qualcosa di un popolo in appena una settimana di viaggio, e ciò che ne esce è sempre un miscuglio tra aspettative, sentimenti, e un occhio “turistico” che mai come in questo caso non si può per nulla scindere dalla storia ancora così sentita, ancora così fresca.
Quando sei stretto tra vicini così ingombranti (Turchia, Russia, Iran, l’Azerbaijan con cui si trascina un conflitto orami da più di vent’anni), non hai molta scelta: o soccombi, o sviluppi una dignità che ti permette di mantenere un equilibrio, seppur precario, tra vicende più grandi di te.
Gli armeni sono stati più volte sul punto di soccombere, di essere cancellati dalle carte geografiche. E se ne esci, ne sopravvivi, per forza di cosa tutto diventa identità, tutto è significato, tutto è testimonianza della tua esistenza, della tua storia.
In quest’ottica vanno visti i segni sicuramente più emblematici del paese, i numerosi monasteri di epoca medievale di cui è costellato tutto il territorio. Isolati, spogli, di una bellezza semplice e austera, sono ben lungi dall’essere solamente i luoghi dal maggior interesse turistico, ma i simboli più visibili di una identità in cui religione (l’Armenia è stata la prima nazione a abbracciare il cristianesimo come religione ufficiale), appartenenza ed orgoglio nazionale sono di fatto la stessa cosa, combaciano perfettamente, qui come in nessun altro luogo.
Quello che forse è il più bello, il monastero di Tatev, il più lontano e il più difficile da raggiungere (a meno di prendere una funivia lunga ben 5 km), si estende fiabescamente in cima ad una gola, e sembra quasi fare da tramite tra la terra e il cielo, tra il passaggio dell’uomo e qualcosa di più grande, di più difficile da contemplare.
Allo stesso modo tutti gli altri (Khor Virap, Noravank, Geghard, Akhtala, Saghmosavank), con il loro inconfondibile profilo conico, si ergono quasi come fari, solenni e silenziosi, in un territorio brullo e assolato.
Fari in una terra senza mare, testimonianza di una storia che non si può cancellare, e riferimento per una storia che sarà.
Il faro più grande, il più importante, l’Ararat, si erge beffardamente al di là del confine (chiuso) con la Turchia. E’ lì, se stendi il braccio forse lo puoi toccare, è vicinissimo e lontanissimo allo stesso tempo. Impossibile ignorarlo, incombe come un gigantesco convitato di pietra su tutto il paese, ne è il simbolo indiscusso. Campeggia addirittura sulle etichette delle bottiglie di cognac, altro intoccabile orgoglio nazionale.
Al silenzio del territorio, fa da contraltare la vivacità di Yerevan, capitale e di fatto unico vero centro importante del Paese. In un contesto così denso di storia, la capitale forse è il posto che ne possiede meno: è un luogo in trasformazione, tra piacevoli viali alberati di epoca russa, brutture sovietiche e speculazioni edilizie un po’ kitsch, opera degli armeni di ritorno dalla diaspora. Quelli coi soldi, quelli che hanno fatto fortuna altrove, in Franca, Usa, Canada.
La città però racchiude uno scrigno, il museo Matenadaran, dove sono conservati tutti i manoscritti salvati miracolosamente da deportazione e distruzioni, in gran parte provenienti dalla “Grande Armenia” storica, oggi parte rilevante della Turchia orientale, e dalla vecchia capitale, Ani, città ora in rovina, abbandonata da qualche parte nell’Anatolia.
Il sonnacchioso e anonimo paesone che si presenta di giorno, alla fine trae in inganno: di sera, i viali si riempiono di un brulicare di vita, di vecchi e giovani che ballano, famiglie che passeggiano, di bambini che giocano, di un chiacchiericcio che dura per ore, fino al cuore della notte. Sembra di essere in una città del sud Italia, o greca, o nordafricana, o forse Beirut. Il “milanese che è in noi” si stupisce, si chiede da dove escano, se per caso di giorno non lavorino, come è possibile. Ma questa vitalità, un po’ inaspettata, forse è il segreto più vero dell’animo armeno: se sei stato ad un passo dal perdere tutto, non hai tempo nè voglia di portare rancore, o di odiare.
Tutto quello che puoi fare è far festa, fino al mattino dopo.
– Stefano Potenza –
Per tutte le informazioni utili su questo paese (quando andare, cosa vedere, dove dormire…), clicca qui.
Danila says:
Davvero un bel post su un paese di cui non si parla abbastanza e che io stessa non conosco..
Molto spesso le atrocità subite da un popolo sono proprio il motivo della loro “spensieratezza” e voglia di rivalsa.
Eleonora | Viaggiatori Nel Tempo says:
ciao Danila, hai proprio ragione, spesso le atrocità subite possono essere il motore di voglia di vivere delle persone.
spero di visitare questo paese prima o poi, Stefanoe Antonella me lo hanno fatto amare nel loro racconto!
Stefano says:
Ciao Danila, grazie per le belle parole. Concordo, molto spesso sono proprio i popoli che hanno più hanno subìto, a mostrare la voglia più grande di “mordere” la vita. Mi viene in mente ad esempio Tel Aviv, probabilmente la città più “festaiola” e trasgressiva del Mediterraneo, capitale di uno Stato in guerra dal primo giorno della sua esistenza. Oppure pensa a Berlino, una città martoriata dalla Storia, ma già fin dagli anni ’70 culla delle controculture “alternative” europee, forse molto più della stessa Londra.
vagabondele says:
Ragazzi che bello questo vostro post! Da poco ho messo in cantiere un sogno, visitare l’Armenia e la Georgia e dopo aver letto questo non posso che essere ancora più convinta! Grazie!
Stefano says:
Grazie a te! Forse, tempo e visti (e soldi!) permettendo, per una visione più chiara dell’area (incluse le sue contraddizioni) occorrerebbe visitare anche l’Azerbaijan, un paese “giovane” sotto tutti i punti di vista.